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Squid Game: il grande gioco della società moderna

Immaginate un mondo in cui l’avidità è un passatempo, l’ipocrisia un’arte e il desiderio una valuta. Oh, scusate: è il nostro mondo. E “Squid Game”, la serie sudcoreana che ha monopolizzato Netflix e alimentato i dibattiti globali, non fa altro che prendere questa realtà e darle un design accattivante, una colonna sonora inquietante e una tuta verde.

Un gioco di bambini con posta mortale

“Squid Game” parte da un’idea apparentemente innocua: giochi d’infanzia. Ma qui le regole hanno una postilla letale. I partecipanti, 456 persone sull’orlo del baratro finanziario, competono per un premio esorbitante  rischiando la vita. I giochi, infantili in apparenza, si trasformano in un’iperbole della competizione sociale: l’idea che nella nostra società devi vincere o perire. Suona familiare, vero?

I protagonisti della serie  sono archetipi di una società dove il successo è per pochi e l’insuccesso, beh, una sentenza di morte. Letteralmente o metaforicamente, dipende solo dal grado di crudeltà della vita reale.

Distopia o specchio?

Non c’è bisogno di un salto temporale o di un futuro post-apocalittico per capire “Squid Game”. La serie è una distopia, sì, ma la sua genialità sta nel fatto che è una distopia appena distante dal mondo reale. Le dinamiche sono le stesse: le masse sono carne da cannone, i ricchi guardano e scommettono, e chi detiene il potere rimane invisibile, nascosto dietro una maschera (o, se preferite, dietro politiche aziendali e algoritmi opachi).

La Corea del Sud ha ispirato questa narrazione, ma il messaggio è globale. Dalla diseguaglianza economica alla spietata competizione sociale, Squid Game ci mostra come il divario tra ricchi e poveri non sia più solo una statistica, ma uno spettacolo. Un intrattenimento. Un reality show.

Il fascino della desolazione

Siamo onesti: perché amiamo questa serie? Perché, come spettatori, siamo tanto colpevoli quanto i VIP della serie che guardano e scommettono sui giocatori. “Squid Game” è costruita per provocare, per farci immedesimare nelle vittime, ma anche per farci godere delle loro sofferenze. È il perfetto esempio di “gamification” della disperazione, trasformata in prodotto. E noi lo acquistiamo, lo condividiamo, ne parliamo.

TikTok, YouTube, Roblox e persino le criptovalute hanno cavalcato l’onda di “Squid Game”. È diventato un meme, un brand, un fenomeno globale. Ma non è solo marketing. È un riflesso del nostro stesso narcisismo digitale: se è popolare, lo condividiamo. Se è controverso, lo discutiamo. Se è scioccante, lo clicchiamo.

Maschere e realtà

Le maschere sono un simbolo centrale nella serie. Nascondono, spersonalizzano, deumanizzano. Gli uomini in rosso che organizzano il gioco non sono individui, ma una forza collettiva anonima, proprio come le aziende o i sistemi finanziari che ci governano. Anche noi indossiamo maschere: profili social, avatar, curriculum. Siamo tutti partecipanti in un grande gioco. La differenza? Non sempre ci rendiamo conto che stiamo giocando.

Una serie o una profezia?

“Squid Game” non è solo una serie TV. È una critica sociale mascherata da intrattenimento, uno specchio che ci mostra quanto siamo disposti a sacrificare – moralmente o fisicamente – per un’illusione di successo. E se questa illusione è abbastanza accattivante da farci ignorare la realtà, forse non siamo tanto diversi dai personaggi che corrono disperatamente verso una bambola robotica che spara a chi fallisce.

Quindi, no, “Squid Game” non è solo fiction. È un’iperbole della realtà. Ma, come ogni iperbole ben fatta, è così vicina al vero che fa paura.

E forse, dopotutto, è questo il motivo per cui non riusciamo a smettere di guardarla.

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