Tra sogni di sostenibilità e realtà di compulsione digitale
Se c’è una cosa che il 2020 ci ha insegnato, oltre a come cuocere il pane in casa e fare yoga sul tappeto del soggiorno, è che meno è di più. Sostenibilità, economia circolare, decluttering—tutte parole che ora utilizziamo con la stessa frequenza con cui prima dicevamo “aperitivo”. Il mercato dell’usato, però, è stato il vero trionfatore. E no, non stiamo parlando del vintage chic di tua nonna, ma di quello digitalizzato e mass market: le app come Vinted, Wallapop, Depop, e Vestiaire Collective, dove si comprano e si vendono abiti (e non solo) con la stessa facilità con cui si ordina un sushi su Deliveroo.
Un po’ di storia (ma non addormentarti)
Vinted nasce nel 2008 da una storia che sa tanto di startup romantica: due ragazzi lituani, un guardaroba ingombrante e un amico nerd che sapeva programmare. In poco tempo, quell’idea che pareva fatta per racimolare du spicci è diventata un fenomeno globale. Oggi Vinted conta milioni di utenti e un fatturato da capogiro. Ma non è sola: Depop, con la sua estetica da Gen Z amante della Y2K nostalgia, Wallapop, l’alternativa casual, e Vestiaire Collective, il regno dell’usato di lusso, formano il poker d’assi di un trend che sembra inarrestabile. Senza dimenticare per i nostalgici e i “veri” amanti del vintage e cioè eBay.
La promessa verde (o il miraggio?)
Tutte queste app hanno un manifesto: salvare il pianeta un capo alla volta. Suona bene, no? “Compra usato, salva la Terra”: è quasi poetico. Ma il diavolo è nei dettagli e non veste solo Prada. Perché, se da un lato è vero che comprare di seconda mano riduce l’impatto del fast fashion (che è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di CO2), dall’altro c’è una realtà meno green e più greedy: comprare compulsivamente su queste piattaforme non è sostenibilità, è accumulo digitalizzato.
Pensaci. Quanti di noi, spinti dall’entusiasmo ecologico, si sono iscritti a Vinted, hanno venduto due maglioni e poi ne hanno comprati dieci? l’economia circolare si trasforma in economia del cerchio vizioso.
La moda del “mercatino virtuale”
Aggiungi un link di Vinted nella bio di Instagram e sei subito trendy. Apri un profilo Depop con un’estetica curata e, voilà, ti senti una mini Emily in the city (qualsiasi essa sia). La verità? molti di questi profili nascono per moda, più che per un vero spirito imprenditoriale. E non c’è nulla di male, intendiamoci, ma l’obiettivo di “dare una seconda vita agli oggetti” si scontra spesso con il richiamo del business facile e della voglia di essere cool, postare storie romantiche e qualche maglioncino della nonna.
Sostenibilità o capitalismo mascherato?
Dietro ogni “acquisto consapevole” c’è una strategia aziendale ben oliata. Vinted non prende commissioni dai venditori, ma guadagna dalle spese di protezione acquisti. Depop ha una fetta del 10% su ogni transazione. E Vestiaire Collective, beh, è il paradiso delle commissioni. Tutto lecito, per carità, ma quanto di questo si traduce in un reale beneficio per il pianeta e quanto, invece, è un’altra forma di consumo—solo meglio confezionata?
Queste piattaforme promettono di trasformare i nostri armadi in miniere d’oro, tutto in nome della sostenibilità e dell’economia circolare. Ma dietro le quinte, quanto ci costano davvero queste “virtuose” iniziative?
Vinted: la piattaforma lituana ha conquistato milioni di utenti grazie alla sua politica di zero commissioni per i venditori. Tuttavia, i compratori pagano una “commissione di protezione acquisti” che varia in base al prezzo dell’oggetto. Quindi, mentre vendere è gratuito, comprare comporta un costo aggiuntivo.
Depop: fino a luglio 2024, Depop applicava una commissione del 10% su ogni vendita. Successivamente, ha rimosso queste commissioni, mantenendo però le spese di elaborazione dei pagamenti. Questa mossa potrebbe sembrare vantaggiosa per i venditori, ma le piattaforme devono pur guadagnare da qualche parte, no?
Vestiaire Collective: specializzata in articoli di lusso di seconda mano, questa piattaforma applica commissioni che possono arrivare fino al 25% del prezzo di vendita, a seconda del valore dell’oggetto. Un prezzo piuttosto salato per chi desidera vendere quel vecchio Chanel dimenticato nell’armadio.
Wallapop: Questa piattaforma spagnola offre la possibilità di vendere gratuitamente, ma propone servizi premium a pagamento per aumentare la visibilità degli annunci. Inoltre, le transazioni a distanza comportano commissioni aggiuntive per coprire i costi di spedizione e gestione.
Inoltre, dal 1° gennaio 2024, piattaforme come Vinted e Wallapop sono obbligate a segnalare all’Agenzia delle Entrate gli utenti che superano determinate soglie di vendita, come più di 30 transazioni o oltre 2.000 euro di guadagni annui. Questo significa che i venditori più attivi potrebbero trovarsi a dover affrontare questioni fiscali inattese.
eBay, il veterano del commercio online, per i venditori occasionali, offre un certo numero di inserzioni gratuite al mese . Superata questa soglia, ogni inserzione aggiuntiva comporta un costo agiguntivo. Quando l’oggetto viene venduto, eBay applica una commissione sul valore finale pari al 10% del prezzo di vendita, escluse le spese di spedizione e imballaggio, con un massimo di €200 per transazione.
I venditori professionali devono sottoscrivere un abbonamento a un Negozio eBay, con costi variabili in base al livello scelto. Alcune categorie invece, come “auto, moto ed altri veicoli”, prevedono tariffe differenti:
Nulla sembra essere ordunque gratuito neanche la sostenibilità.
E allora, queste app sono fuffa?
Non del tutto. È innegabile che abbiano contribuito a cambiare il modo in cui guardiamo al consumo. Hanno reso il second-hand cool, accessibile e (soprattutto) digital. Ma è anche vero che il confine tra sostenibilità e moda passeggera è sottile. Sta a noi ricordare il vero motivo per cui queste piattaforme esistono: ridurre gli sprechi, non rimpiazzare il fast fashion con un altro ciclo infinito di acquisti.
Concludendo…
Rivendere è una moda? sì, ma potrebbe essere anche una buona abitudine se usata con criterio. Il rischio, però, è che l’entusiasmo per la sostenibilità venga inghiottito dal capitalismo 2.0. Quindi, prima di scaricare l’ennesima app e trasformarti nella prossima Nasty Gal (che rimarrà inimitabile), fermati un attimo e chiediti: sto davvero facendo una scelta consapevole o sto solo cercando un’altra scusa per fare shopping?