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Leoni da tastiera e l’odio online: quando la violenza digitale diventa la nuova normalità
di Alexsandra Taormina

«Chiunque può odiarti senza conoscerti davvero, e basta un clic per rovinarti la giornata».

 

Questa è la triste sintesi dell’era digitale che stiamo vivendo. Un’epoca in cui la cattiveria viaggia velocissima sui social, senza freni né limiti, protetta dall’anonimato di uno schermo. Non importa chi tu sia, cosa tu abbia fatto o semplicemente detto. Basta un commento, un’opinione personale o addirittura un gesto di gentilezza – come aiutare un cane abbandonato – per scatenare l’inferno. Ed ecco che si materializzano gli haters, i famigerati leoni da tastiera, pronti a sfogare rabbia repressa e odio generalizzato.

Caso Taverna Santa Chiara: quando l’indignazione diventa linciaggio digitale

Un recente episodio emblematico arriva direttamente da Napoli, precisamente dalla Taverna Santa Chiara, diventata involontariamente il simbolo della violenza verbale online. Tutto parte da una discussione accesa tra la proprietaria, Nives Monda, e una coppia di turisti israeliani che negavano il conflitto in corso tra Israele e Palestina. La proprietaria, dichiaratamente antisionista, decide di invitarli ad uscire dal locale, dando vita a una discussione che, una volta condivisa online attraverso un video parziale, diventa rapidamente virale.

Da lì si scatena l’inferno. La reazione online diventa immediata e violenta: recensioni negative false, messaggi minacciosi e accuse di antisemitismo, portando il locale alla gogna mediatica e creando una spaccatura netta tra i sostenitori della donna e chi la accusa ferocemente. L’episodio mostra chiaramente come un singolo evento, amplificato dalla potenza della rete, possa avere conseguenze devastanti nella vita reale, superando i confini della semplice polemica e diventando linciaggio mediatico.

Cyberbullismo: quando l’odio online uccide

L’odio digitale, però, non si limita ai dibattiti politici o ideologici. Spesso assume forme molto più gravi, come il cyberbullismo, fenomeno che coinvolge giovani e giovanissimi con conseguenze tragiche e irreversibili.

È il caso recente e drammatico di Michele, un ragazzo di 17 anni, che si è tolto la vita dopo aver subito per mesi insulti e minacce sui social. Un odio che non si è fermato nemmeno di fronte alla sua morte, con commenti offensivi che hanno continuato a invadere il suo profilo anche dopo la tragedia.

Oppure il caso di Khadim, un giovane con disabilità cognitive deriso brutalmente durante una diretta Instagram da un’aspirante influencer. Il video, diventato virale, ha spinto Khadim a contemplare il suicidio. Una vicenda che mostra quanto possa essere spietato il web, dove la fragilità altrui diventa oggetto di derisione e umiliazione.

L’animalismo tossico: quando un gesto altruista diventa una colpa

Un altro episodio significativo riguarda direttamente un’esperienza personale: recentemente ho condiviso online la foto di un cane abbandonato per cercare aiuto e sostegno. Un gesto semplice e spontaneo che, invece di solidarietà, ha attirato un’ondata di critiche e insulti da parte di sedicenti volontarie animaliste. Non aver preso immediatamente il cane con me, non averlo portato dal veterinario entro pochi minuti e non avergli dato immediatamente del cibo sono stati sufficienti per attirare l’ira feroce e paradossale di decine di utenti, pronti ad accusare senza comprendere o conoscere realmente i fatti.

Questo fenomeno, noto come virtue signalling (“segnalazione di virtù”), rivela una dinamica perversa: persone che criticano aggressivamente per apparire moralmente superiori agli occhi del pubblico online, trasformando la solidarietà in violenza gratuita e assurda.

Perché l’odio online è così diffuso?

Dietro l’apparente semplicità di questo fenomeno si nascondono dinamiche complesse:

  • Anonimato: protetti dietro uno schermo e nickname falsi, gli haters perdono ogni freno inibitorio.
  • Assenza di empatia: non vedere direttamente la vittima riduce il senso di colpa e responsabilità.
  • Effetto branco: più persone insultano, più altri si sentono legittimati a farlo, amplificando la violenza.
  • Sensazionalismo degli algoritmi: le piattaforme social premiano contenuti controversi, polemici e aggressivi per massimizzare le interazioni e i guadagni pubblicitari.

Secondo Pew Research, circa l’80% degli utenti ha assistito almeno una volta a episodi di cyberbullismo, con un aumento preoccupante del fenomeno soprattutto tra i più giovani.

Il ruolo degli algoritmi e la responsabilità delle piattaforme social

Gli algoritmi dei social network non sono neutri: premiano i contenuti con più interazioni, spesso quelli più controversi o violenti. Questo genera un ambiente digitale tossico, dove l’odio viene incentivato e monetizzato.

Serve una presa di coscienza seria da parte delle grandi piattaforme: regole più chiare, moderazione attiva, strumenti efficaci per prevenire e contrastare questo tipo di contenuti, e soprattutto algoritmi che smettano di premiare e diffondere l’odio.

Cosa fare quando si è vittime di odio online?

Le conseguenze della violenza online sono gravi e concrete: ansia, depressione, isolamento sociale. Ecco alcuni suggerimenti per difendersi:

  • Denunciare: rivolgersi subito alle autorità, perché il cyberbullismo è un reato punibile per legge (Legge 71/2017).
  • Segnalare alle piattaforme: chiedere la rimozione immediata dei contenuti offensivi.
  • Non reagire alle provocazioni: evitare di alimentare ulteriori attacchi con risposte aggressive.
  • Chiedere supporto: rivolgersi a professionisti (psicologi e avvocati) può essere un passo fondamentale per superare l’accaduto.

Una questione culturale, prima che digitale

Al di là delle soluzioni immediate, la vera sfida resta culturale: l’odio online riflette una crisi profonda di empatia e rispetto nella nostra società. È urgente investire nell’educazione digitale, soprattutto tra i più giovani, per insegnare che dietro ogni nickname c’è una persona reale, con emozioni e dignità.

Solo attraverso un impegno collettivo potremo trasformare il web in uno spazio di dialogo rispettoso, dove diversità e disaccordi possano essere occasioni di crescita, e non pretesti per distruggere l’altro. Perché la gentilezza, l’empatia e il rispetto dovrebbero essere virali almeno quanto lo sono oggi l’odio e la violenza digitale.

Non dimentichiamolo mai.

 

 

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