C’è stato un tempo in cui la morte segnava un confine netto: l’esistenza finiva, e con essa la presenza nel mondo reale. Oggi però qualcosa è radicalmente cambiato. Mentre le persone muoiono, le loro vite continuano a esistere, silenziosamente attive, nel grande cimitero digitale che sono diventati i social network.
Secondo uno studio della Oxford Internet Institute, entro la fine di questo secolo, su Facebook ci saranno più profili di persone morte che di persone vive. Un’immagine surreale, forse anche inquietante, ma che ci mette di fronte a interrogativi nuovi e profondi: cosa succede realmente alla nostra identità digitale quando non siamo più qui? Chi si occuperà del nostro patrimonio digitale, fatto di messaggi, foto, commenti e contenuti che inevitabilmente sopravvivono a chi li ha creati?
Quando il lutto diventa digitale: conforto o trappola?
La morte nel digitale non è più un tabù silenzioso, ma una continua conversazione. Sui social si perpetua la vita digitale di chi non c’è più attraverso pagine commemorative, messaggi pubblici di ricordo e persino auguri di compleanno postumi. E così, piattaforme come Facebook e Instagram diventano, in modo inaspettato, una sorta di altare virtuale dove il lutto si trasforma in rito collettivo.
Un fenomeno che il filosofo e tanatologo digitale Davide Sisto ha definito con chiarezza nel suo libro La morte si fa social: «Diventiamo spettri digitali, permanentemente disponibili per i posteri, testimoni accidentali della nostra esistenza passata». Ma questa costante presenza, che in apparenza offre conforto ai vivi, rischia di intrappolare chi rimane in una sorta di limbo, incapace di elaborare completamente la perdita. Una presenza digitale che diventa talvolta angosciante, dolorosa, persino soffocante.
L’eredità digitale e la sfida della privacy post-mortem
Se la nostra vita continua a pulsare sui social, chi decide cosa può essere cancellato e cosa deve restare? Il caso emblematico di Carlo Costanza, giovane chef agrigentino scomparso in un tragico incidente stradale, ci mette davanti proprio a questo dilemma. I suoi genitori, per tentare di riempire il vuoto della perdita, hanno combattuto legalmente con Apple per ottenere l’accesso al suo account iCloud. Una battaglia che ha segnato un precedente importante: oggi la legge italiana permette ai familiari di accedere ai dati digitali del defunto, a meno che non vi sia stata una dichiarata volontà contraria.
Ma attenzione, il diritto di ricordare rischia di scontrarsi con il diritto di essere dimenticati, anche nella morte. Le nostre vite private, che affidiamo con superficialità a Instagram o TikTok, non finiscono necessariamente con noi: contenuti sensibili, immagini intime e messaggi privati sopravvivono, lasciando un’eredità potenzialmente compromettente e a volte persino imbarazzante.
La tecnologia che sfida la morte: dai chatbot agli avatar digitali
Per alcuni la risposta al dolore del lutto è nell’intelligenza artificiale. SafeBeyond, piattaforma nata dall’esperienza personale dell’israeliano Moran Zur, permette di lasciare messaggi postumi ai propri cari, che vengono recapitati dopo la propria morte. Eterni.me, invece, promette di ricreare l’identità di una persona defunta tramite un avatar digitale che simula le sue interazioni, le sue preferenze e persino il suo modo di pensare e parlare.
Se da un lato queste tecnologie possono offrire un supporto psicologico, dall’altro pongono importanti quesiti morali. È giusto o salutare continuare ad alimentare una presenza digitale che simula la vita? Oppure questa pratica non è altro che un ennesimo tentativo disperato di negare l’inevitabilità della morte?
Digital Death Manager: nasce una nuova professione
Proprio per fronteggiare queste sfide complesse nasce una figura nuova, quella del Digital Death Manager: un professionista incaricato di gestire le identità digitali delle persone scomparse, tutelandone l’eredità digitale e la privacy. Anche in Italia questa figura comincia lentamente ad emergere, come risposta pragmatica a una realtà sempre più diffusa: l’identità digitale sopravvive al corpo fisico e necessita di una gestione etica, consapevole e professionale.
Il bisogno di una cultura digitale della morte
Viviamo ancora in una società che fatica enormemente a parlare della morte, considerata un tabù da nascondere o ignorare. Tuttavia, l’era digitale non ci lascia più questa possibilità. Il nostro patrimonio digitale sopravvive, ci obbliga ad affrontare domande complesse e ci impone una riflessione seria e profonda sulla nostra esistenza digitale.
Secondo la psicologa Martina Ferrari, specializzata in psicoanalisi della relazione, «l’elaborazione del lutto nell’era digitale può essere facilitata ma anche fortemente complicata dalla presenza costante del defunto nei nostri dispositivi». Insomma, non basta affidarsi alla tecnologia: serve una vera e propria educazione digitale alla morte, che ci prepari ad affrontare consapevolmente il destino della nostra esistenza online.
Prepararsi oggi per domani
La morte digitale non è più solo un’ipotesi futuristica, è già parte della nostra quotidianità. Le piattaforme social si stanno muovendo lentamente, Apple permette già di designare un account erede, ma troppo spesso la scelta viene ignorata o rimandata.
In un’epoca in cui la linea tra vita e morte si assottiglia sempre di più, diventa fondamentale prendere sul serio il futuro della nostra identità digitale, decidere cosa vogliamo lasciare e cosa no, e soprattutto a chi affidare la gestione del nostro patrimonio online.
Prima che sia troppo tardi, è giunto il momento di chiederci: che tipo di fantasma digitale vogliamo essere?