(di Angela Sciortino) È una delle specie agricole che l’Eni, tramite la sua controllata Versalis, sta sperimentando in Sicilia e in altre parti d’Italia, per ottenere un prodotto di base da trasformare in alcuni suoi impianti italiani dopo la loro riconversione green. Primo tra tutti quello di Gela. Sul Guayule (Parthenium argentatum), arbusto appartenente alla famiglia delle Asteracee, nativo del deserto di Chihuahua (Messico) e del Sud Ovest degli Stati Uniti, diverse aziende chimiche hanno puntato gli occhi. Perfino alla Michelin, nota produttrice di pneumatici, piacerebbe produrre bio-copertoni. Per Gela si prospetta, quindi, una chimica green (i vertici Eni si erano impegnati in tal senso quando primo ministro era Renzi) basata non più sulla raffinazione degli idrocarburi fossili ma di alcuni composti naturali di origine vegetale. E il Guayule appartiene, appunto, alla schiera dei prodotti “papabili” per la nuova sfida dell’Eni verso la bio-raffineria. Ma Eni cosa cosa pensa di ottenere dal Guayule? Anzitutto una gomma naturale. La pianta, infatti, produce un lattice alternativo a quello ricavato dalla Hevea brasiliensis, l’albero del caucciù rispetto al quale possiede caratteristiche ipoallergeniche che lo rendono adatto soprattutto per i guanti dei chirurghi. Il grande interesse per questa gomma naturale si spiega da una parte con l’allergia provocata dal caucciù in una parte considerevole della popolazione mondiale (10-15 per cento) dall’altra con il rischio che le coltivazioni di Hevea brasiliensis del Sud-Est asiatico possano avere lo stesso destino di quelle brasiliane che sono state decimate da perniciosi attacchi parassitari. Oltre alla gomma ci sono anche (e forse soprattutto) una serie di derivati di grande interesse industriale come una resina terpenica che può essere usata come impregnante per i legni, un olio essenziale e una cera (simile a quella di jojoba usata in cosmetica). Ma dopo l’estrazione di lattice, resina, olio e cera rimane la “bogassa”, quello da cui i chimici di Versalis pensano di potere ottenere il prodotto più interessante. Questa può essere usata tal quale come combustibile, oppure sottoposta ad altri processi microbiologici e chimici che portano alla formazione dell’1,3-butadiene tutto di origine rinnovabile che la Versalis chiama bio-BDE e con cui viene realizzata una bio-gomma ottima per la produzione pneumatici.
I primi risultati della sperimentazione del Guayale in Sicilia sono stati presentati ieri, 11 ottobre, nell’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali dell’Università di Palermo in un workshop organizzato dall’Esa, l’Ente di Sviluppo Agricolo della Sicilia (tornato a nuova vita da quando è assessore Antonello Cracolici, lo stesso che da semplice deputato regionale ne aveva più volte auspicato la chiusura).
Dalle relazioni dei docenti universitari una cosa è certa. È troppo presto per parlare di successo e di possibili sviluppi. Tanti sono i motivi. A cominciare dall’esiguità della superficie destinata alla sperimentazione (poche migliaia di metri quadrati) e dal ridotto numero dei siti in cui viene condotta: due in totale, uno a Barcellona Pozzo di Gotto (in provincia di Messina) l’altro a Cammarata (in provincia di Agrigento) dove si trova l’azienda sperimentale dell’Esa di Sparacia. C’è poi da aspettare che si arrivi al terzo anno di coltivazione, momento in cui si effettua il taglio delle piante per avviarle alla trasformazione industriale.
Impossibile parlare, quindi, per adesso di rese, costi complessivi della coltura, convenienza economica e via discorrendo. In ultimo: per coltivare il Guayale pare serva una certa disponibilità d’acqua, e ovviamente, estensioni aziendali ragguardevoli. Due cose di cui in Sicilia non è facile disporre. Eppure l’assessore Cracolici, impegnato in una difficile campagna elettorale non ha dubbi: “La produzione di Guayule in Sicilia può aprire nuove prospettive per il comparto agricolo e per la riconversione ‘green’ di quello che fu il polo petrolchimico di Gela”, ha affermato durante il workshop.