Qualcuno dica ai creatori del vocabolario di Oxford che il “brain rot” non è la parola dell’anno: purtroppo è il manifesto culturale della nostra epoca, un triste riflesso di quello che siamo senza possibilità di ritorno al passato. Letteralmente “marcescenza del cervello”, il termine ha vinto a mani basse il titolo di “Parola dell’anno 2024” grazie a voti popolari (e forse qualche algoritmo di TikTok che scrollava più veloce degli utenti stessi). Ma cosa c’è dietro questo fenomeno?
Il brain rot descrive quel momento di vuoto cosmico che si manifesta dopo ore di scroll infinito su TikTok, Instagram o qualsiasi piattaforma abbia trovato un modo per farci fare tap come piccioni ammaestrati. Secondo Oxford, si tratta del deterioramento mentale causato dal consumo eccessivo di contenuti banali. Una traduzione contemporanea? Guardare video di squali che volano nel cielo o meme che si trasformano in draghi (sì, su TikTok è un genere ormai).
La Gen Z e l’autocritica (ironica)
L’ironia della situazione è che proprio la Generazione Z, tra un balletto e l’altro, è la principale promotrice del termine sui social. Sono loro a urlare al mondo “ho il brain rot” dopo aver visto ore di clip assurde, trasformando un problema serio in un trend virale. Per Casper Grathwohl, presidente di Oxford Languages, questa auto-consapevolezza sfrontata è un mix letale: è come sapere che il cibo spazzatura fa male e ordinarne comunque una scorta per il mese.
Un problema antico in un contesto nuovo
Prima di incolpare Zuckerberg e TikTok per la nostra degenerazione mentale, ricordiamoci che il brain rot non è nato ieri. Henry David Thoreau ne parlava già nel 1854 nel suo libro Walden, accusando la società di ridurre tutto a idee semplici e inutili. L’unica differenza è che ai tempi ci mettevano mesi a diffondere sciocchezze; oggi basta un Reels.