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Brain Rot: benvenuti nell’epoca del marciume cerebrale 4.0
di Alexsandra Taormina

Qualcuno dica ai creatori del vocabolario di Oxford che il “brain rot” non è la parola dell’anno: purtroppo è il manifesto culturale della nostra epoca, un triste riflesso di quello che siamo senza possibilità di ritorno al passato. Letteralmente “marcescenza del cervello”, il termine ha vinto a mani basse il titolo di “Parola dell’anno 2024” grazie a voti popolari (e forse qualche algoritmo di TikTok che scrollava più veloce degli utenti stessi). Ma cosa c’è dietro questo fenomeno?

Il brain rot descrive quel momento di vuoto cosmico che si manifesta dopo ore di scroll infinito su TikTok, Instagram o qualsiasi piattaforma abbia trovato un modo per farci fare tap come piccioni ammaestrati. Secondo Oxford, si tratta del deterioramento mentale causato dal consumo eccessivo di contenuti banali. Una traduzione contemporanea? Guardare video di squali che volano nel cielo o meme che si trasformano in draghi (sì, su TikTok è un genere ormai).

La Gen Z e l’autocritica (ironica)

L’ironia della situazione è che proprio la Generazione Z, tra un balletto e l’altro, è la principale promotrice del termine sui social. Sono loro a urlare al mondo “ho il brain rot” dopo aver visto ore di clip assurde, trasformando un problema serio in un trend virale. Per Casper Grathwohl, presidente di Oxford Languages, questa auto-consapevolezza sfrontata è un mix letale: è come sapere che il cibo spazzatura fa male e ordinarne comunque una scorta per il mese.

Un problema antico in un contesto nuovo

Prima di incolpare Zuckerberg e TikTok per la nostra degenerazione mentale, ricordiamoci che il brain rot non è nato ieri. Henry David Thoreau ne parlava già nel 1854 nel suo libro Walden, accusando la società di ridurre tutto a idee semplici e inutili. L’unica differenza è che ai tempi ci mettevano mesi a diffondere sciocchezze; oggi basta un Reels.

Il capitalismo limbico ci ha fregati (di nuovo)

Non possiamo, però, ignorare che c’è scienza dietro la follia. I social media sono progettati per agganciare i nostri cervelli attraverso scariche continue di dopamina, lo stesso meccanismo che alimenta altre dipendenze. E non sono solo piattaforme: sono macchine perfettamente calibrate per sfruttare le nostre debolezze, trasformandoci in zombie digitali con il pollice perennemente in movimento.

Brain rot: sintomo o colpevole?

È il solito dilemma: i social sono il problema o il mezzo attraverso cui i problemi si amplificano? Certo è che il “brain rot” non parla solo di contenuti vuoti, ma di come usiamo il nostro tempo libero, di un’epoca in cui ogni momento di noia deve essere riempito da microcontenuti che evaporano dalla memoria dopo 0,3 secondi.

La cura? Non è disinstallare l’app

Se pensate che la soluzione sia chiudere tutto e tornare al Nokia 3310, vi sbagliate. Il proibizionismo digitale non funziona, e chi ci ha provato lo sa bene. La vera sfida è educare le persone, soprattutto i giovani, a un consumo consapevole. Tradotto: sì, puoi guardare video di gattini che ballano, ma ogni tanto leggi anche qualcosa che non ti fa sentire un mollusco intellettuale.

E voi, quanti neuroni avete perso oggi?

Il brain rot è qui per restare, ma forse possiamo conviverci. Basta accettare che, nel 2024, scrollare senza scopo non è più un passatempo: è una religione.

 

 

 

 

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