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Rischio tracciabilità per i prodotti a base di frumento. Rifinanziato il fondo grano duro
di Angela Sciortino

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(di Angela Sciortino) Più della metà del grano duro coltivato in Italia è a rischio tracciabilità. Cioè chi lo acquista e lo trasforma non ha la certezza che quella granella abbia le caratteristiche tecniche e organolettiche tipiche della varietà dichiarata dal produttore. L’allarme lo ha lanciato Assosementi, l’associazione che riunisce le imprese sementiere italiane, secondo cui rispetto all’anno scorso le richieste di certificazione di sementi di grano duro in Italia sono calate ancora del 12%. E già nella campagna scorsa era stato impiegato seme non certificato in più del 50% della superficie coltivata. «Senza seme certificato non ha senso parlare di tracciabilità – afferma Franco Brazzabeni, presidente della Sezione cereali di Assosementi – secondo i numeri diffusi dal Crea-Dc, l’ente responsabile della certificazione delle sementi in Italia, infatti, le domande dei cartellini ufficiali per la campagna cerealicola in corso vivono una fase di stagnazione».

Il dato peggiore riguarda il comparto del grano duro, dove le richieste di certificazione ammontano ad appena 178 mila tonnellate. Il dato è allarmante, secondo Brazzabeni, tanto più che si tratta della materia prima da cui si ottiene la pasta, simbolo di italianità nel mondo. Il ricorso sempre meno massiccio all’uso di seme certificato da parte di agricoltori stanchi e vessati da prezzi in caduta libera spinge a sua volte le ditte sementiere a certificare minori quantità: la produzione e la certificazione delle sementi sono procedimenti aziendali costosi che, se non ripagati dal mercato, rischiano di mandare ko le imprese. «Le criticità del settore cerealicolo vanno affrontate in un contesto di filiera, con il seme certificato come denominatore comune – aggiunge Brazzabeni – il cui uso assicura evidenti vantaggi ad agricoltori, stoccatori, trasformatori e anche ai consumatori, oggi sempre più attenti alla piena tracciabilità delle produzioni».

Proprio in questa ottica lo scorso anno il governo nazionale era ricorso ai ripari istituendo il “fondo grano duro”: 10 milioni di euro da destinare agli agricoltori100 euro a ettaro fino a un massimo di 50 ettari – che sottoscrivessero un contratto di filiera e si impegnassero ad usare semente certificata. L’esperimento non è stato esaltante. I dieci milioni non sono neppure stati spesi tutti per assenza di domande.

L’obiettivo di valorizzare il grano di qualità 100% italiano, cercando di superare la cronica debolezza strutturale nella scarsa capacità di organizzare l’offerta nazionale, che è il principio ispiratore per cui il legislatore ha istituito il fondo, si scontra con diversi fattori. C’è la resistenza degli industriali della pasta a comprare prodotto italiano che sostengono non essere all’altezza delle loro tecnologie; ma c’è anche la rassegnazione degli agricoltori a prezzi ormai in picchiata e incapaci di ripagare sforzi, lavoro e investimenti. E il premio di 100 euro per ettaro assicurato l’anno scorso a chi sottoscriveva un contratto di filiera, ripaga a mala pena dei maggiori costi che i cerealicoltori dovevano sostenere per l’acquisto delle sementi certificate. A causa del permanere della crisi di mercato, il fondo grano duro è stato riconfermato anche per la nuova campagna agraria, ma il nuovo decreto di attuazione ha marcato l’incentivazione: il massimale dell’incentivo passa da 100 a 200 euro per ettaro.

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